Un imperativo categorico.

Parlate della mafia.Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali.Pero’ parlatene.” Cosi’ diceva Paolo Borsellino, e questo  è un comportamento da considerare morale in modo categorico.

Continua la discussione iniziata qui

, con una lettera di Fernanda Gigliotti:

(fonte foto )

“”Chi ha paura di un Roberto Saviano?

Il Presidente Berlusconi, questa estate, si è irresponsabilmente intrattenuto nella dimostrazione di un teorema pericoloso ed inquietante, secondo cui il problema della Regione Campania non è la Camorra ma Saviano che l’ha resa famosa. Se questo metodo di analisi e di sintesi fosse esportato nel campo della medicina dovremmo concludere che non è il cancro ad essere una malattia mortale per l’uomo, ma quel fetente di medico che lo ha individuato e tutti quei delinquenti di untori che si sono impegnati nel ricercarne una cura.

Questa nuova corrente filosofica-politica-culturale sta conquistando adepti ovunque. Anche in Calabria. E da qualche mese in Calabria, complice il caldo agostano e un ritrovato orgoglio regionale, imperversa un’orda di “pensatori a ruota libera” che, tra le altre cose, considera spregevole l’attenzione di Saviano verso la Calabria in quanto, sempre a giudizio dell’orda, rappresenta solo un’operazione di marketing editoriale dell’autore di Gomorra interessato a costruire, alle spalle della Calabria e dei calabresi onesti, un nuovo best seller. Anche a giudizio di questi nuovi PR della buona calabresità, infatti, il nostro problema non è la ndrangheta, ma chi ne parla. E se quest’ultimo dovesse essere un “non calabrese”, come Saviano che è notoriamente un cittadino della Campania, è responsabile di un complotto, di un sabotaggio, di un vilipendio nei confronti di quella Calabria sana e produttiva, che pur esiste.

Una moderna applicazione, quindi, di un arcaico ius sanguinis, secondo cui “della Calabria dovrebbero scrivere i calabresi”. E perchè non anche altri? E’ cos’è la calabresità che ti autorizza, legittimandoti, a scrivere della Calabria? La patente che ti accredita in Calabria e nel resto di Italia? E come si diventa calabrese idoneo a parlare e scrivere di ndrangheta? Occorre essere calabresi di nascita o basta essere cresciuti in Calabria? Oppure è bastevole avere soltanto delle radici? O addirittura occorre essere calabresi, nati e pasciuti in Calabria e magari anche affiliati ad una ndrina?

Ma cos’è realmente questo ius sanguinis che imperversa anche nelle menti di chi dovrebbe essere l’illuminato intellettuale europeo del XXI sec.? Perché siamo ritornati a considerare prioritario un diritto di sangue e a porlo in posizioni dominante rispetto alla libertà di stampa, di parola, di pensiero? Perchè mai abbiamo assunto a criterio di “cittadinanza calabra” lo stesso principio che regolamenta l’appartenenza ad alcune associazioni criminali e a tante altre associazioni, che benchè non criminali, sono escludenti, chiuse, rituali, vecchie, destinate a sparire spesso annegando nel proprio sangue?

Tutto questo “è il nuovo medioevo” di quanti temono che un Roberto Saviano in versione calabrese, possa contribuire a smuovere le coscienze ipnotizzate dei calabresi e a denudare quella zona grigia di borghesia mafiosa che “impera indisturbata” nella economia e nella politica calabrese. E tutto questo fa paura e fa tremare i polsi non tanto alla ndrangheta, che continua a fare affari e che se gli dai fastidio non ti avvisa né sulla stampa né con proiettili e polverine, tutt’al più ti spara in pieno giorno su una spiaggia affollata, ma fa paura a quanti hanno cancellato la linea di demarcazione tra società civile e società criminale, pur di essere vincenti, pur di diventare casta intoccabile in politica, in economia, in “certa” magistratura o in “certa” editoria.

Tutti gli altri calabresi, invece, caro Saviano sperano che tu trovi presto in Calabria una “Rosaria Capacchione” e che ci darai una mano, anche con il peso e la forza che solo la letteratura può avere, a ritrovare le ragioni di un orgoglio nell’essere “europei” e “liberi”, finalmente “altra cosa” dalla “cultura della mafiosità” che non è mafia, ma che né costituisce il presupposto.“”

(per gentile concessione dell’autrice)

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