I racconti di nonna Dora
Da bambina ero convinta che mia nonna Dora avesse due doti magiche: una si trovava nelle mani, ed era la capacità di produrre impasti favolosi, e l’altra nella bocca perché sapeva incantarmi con le parole. Non ho mai avuto la possibilità di chiederle, da adulta, da dove tirasse fuori alcune delle storie che mi raccontava, rimarrà per sempre insoddisfatta la curiosità di sapere quanto esse fossero il prodotto della sua fervida immaginazione, quanto storie riprese dalla tradizione orale o quanto fossero una narrazione di fatti avvenuti realmente, cosa che lei sosteneva con una certa fermezza ma a cui non credevo, convinta com’ero che tante assurdità non potessero esistere al mondo. In verità, i filoni narrativi della nonna erano tre: uno divertente, ed erano le storie della sua bizzarra infanzia in una numerosissima famiglia, uno molto triste, costituito dai racconti dell’alluvione del 1935 a Serra San Bruno che causò la morte di una sua amica assieme a quella di altri nonché la devastazione del paese, e l’ultima terrorizzante, in cui c’era sempre una contrapposizione tra due protagonisti: lo/a stramba del paese, che viveva in fedeltà a se stessa senza arrecare danno ad altri, e l’umanità misera e gretta di altri – possibilmente rappresentati dalla comunità – che finivano con l’uccidere o nella migliore delle ipotesi a far morire di dolore l’innocente stramba. Non ho la minima idea del perché la nonna mi raccontasse queste ultime, se semplicemente volendomi spaventare per scherzo visto che era una gran burlona oppure se, avendo intravisto in me una qualche stramberia in germe, volesse mettermi velatamente in guardia dall’umanità, che è tutt’altro che quel poderoso combinato di solidarietà, compassione, comprensione, amore, perdono, cura, gentilezza che la sua etimologia vorrebbe suggerirci. Fatto sta che i pomeriggi d’estate ci stendevamo sul suo lettone, incollava quegli occhi celesti e furbi su di me, ipnotizzandomi, e poi iniziava raccontarmi le più terribili storie di cattiveria umana che una bambina avesse mai potuto sentire. Infine, con la nonchalance di una grande affabulatrice, mi dava un bacio e mi augurava buon riposo, come se a quel punto avrei mai potuto chiudere occhio o trovar pace, in quella casa dai pavimenti di legno scricchiolanti e con le immagini di disastri ambientali e di malvagità umana stampate nella testa.
A far riesumare dalla memoria i racconti di nonna Dora è stata la lettura di alcuni libri che ho scoperto nell’ultimo anno, nei quali ho rintracciato un leit motiv: Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson, Sula di Toni Morrison e Ruggine di Anna Luisa Pignatelli*. Ma in che modo si possono mai accostare tre scrittrici così diverse nei loro personalissimi stili di scrittura, nelle personagge e nelle storie che hanno inventato? Semplicemente mi è parso che abbiano messo a nudo la vulnerabilità delle loro personagge rispetto ad un altro rappresentato da una intera comunità, ma anche ad un’altra/o legato/a ad esse da una relazione di forte prossimità (una sorella, un’amica che è più di una sorella ed un figlio), ad incarnare la banalità del male. Vulnerabili in tutta la loro corporeità di donne, cosa tutt’altro che irrilevante e inscindibile dagli accadimenti delle loro vite.
A proposito di vulnerabilità Alessandra Pigliaru** scrive <<[…]In questo movimento a senso unico, il soggetto ricevente non ha cioè la possibilità di accettare o meno ciò che l’altro/l’altra ha in serbo per lui/lei. Ne fa esperienza solo quando la ferita è già stata inferta. È quella che chiameremo vulnerabilità relazionale coercitiva perché nelle cause viene stabilita solo da uno dei due attori e non prevede necessariamente una risposta da parte di chi ne esperisce gli effetti[…]>> e ancora <<[…]Se dunque ciò che è vulnerabile determina l’entrata in un piano di esistenza, quello che in questo piano accade è la rappresentazione puntuale di uno sfondo più vasto in cui simbolico e materiale si toccano. Molte sono le narrazioni della vulnerabilità, e altrettante corrispondono a scritture non necessariamente filosofiche in senso stretto ma che tengono un punto fermo sul pensiero dell’esperienza[…]>>
Abbiamo sempre vissuto nel castello: il male dentro e fuori
Mary Katherine ha diciotto anni, vive con la sorella maggiore Constance e l’anziano zio Julian rimasto invalido anni prima quando tutti gli altri membri della famiglia sono morti avvelenati con l’arsenico durante una cena, morti per le quali è stata accusata e poi prosciolta Constance. I tre vivono nella casa padronale della loro notabile e decaduta famiglia, con ampio terreno boschivo recintato, mantenuta pulita ed in perfetto ordine da se stesse. Vivono da recluse, scandendo le giornate puntigliosamente tra piccoli riti di vita quotidiana, in una situazione di apparente ed idilliaca felicità, come racconta Merricat voce narrante. Fino a quando non irrompe nelle loro vite un cugino dagli interessi non proprio rispettabili, che crea una breccia nel muro eretto a difesa delle loro vulnerabilità rispetto al resto della comunità, lasciando spazio alle disastrose conseguenze delle quali avvertiamo fin da principio l’inevitabilità, attraversate da un brivido freddo.
<<Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto vieni./Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni./Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?/In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!>>
Questa è la litania che recitano i bambini, come fossero addestrati, quando Merricat è costretta ad entrare in paese per le compere necessarie alla loro sopravvivenza, mentre Merricat si costringe a camminare impettita e a ritirarsi in se stessa. Il malanimo della comunità nei confronti delle due ragazze è palpabile, così come la grettezza della gente, mascherata – nel migliore dei casi –dal fare borghese. Il male e la cattiveria si insinuano tra le pagine senza che Shirley Jackson abbia bisogno di alzare la voce, come ha scritto di lei Stephen King. E a poco servirà l’uscita di scena del cugino o il voler rimediare dettato dal senso di colpa di qualcuno altro, perché a quel punto sarà già stata preclusa ogni via d’uscita o di ritorno per Merricat e Connie, che saranno costrette a fare i conti definitivamente con la banalità del male, che è sempre fuori dal recinto ma a volte anche dentro casa.
Sula: il Fondo, una burla da negri
Sula e Nel vivono nel Fondo, la zona di una cittadina dell’Ohio dove è segregata la popolazione nera: << Una burla, una burla da negri>> la descrive così Morrison. Sono diventate amiche da ragazzine, riconoscendosi l’una nell’altra, imparando a capirsi con un solo sguardo e condividendo ogni cosa, compreso un crimine. La loro amicizia quasi simbiotica consente loro di sopportare le miserie e le difficoltà della vita, sia in famiglia – dove Sula ha a che fare con le presenze forti e ingombranti di una madre con cui non si comprende e di una nonna eccentrica e singolare, sia a scuola e per stradafino a quando ciascuna prenderà la propria strada: Sula abbandonerà il Fondo e ritornandovi dopo anni ritroverà Nel completamente integrata nella vita della comunità da cui si è lasciata plasmare. La distanza tra le due diverrà incolmabile e dolorosa.
Sula non si adegua << Io non voglio essere qualcun altro. Io voglio essere me stessa>> dice alla nonna che cerca di convincerla della necessità di sposarsi e avere figli. La comunità la bolla e la marchia: gli uomini mettendo in giro la voce dell’unica colpa davvero imperdonabile per loro, ossia quella di essere stata a letto con uomini bianchi, niente di più infamante << Per loro, ogni unione tra un uomo bianco e una nera non poteva essere che uno stupro: era letteralmente impensabile che la nera fosse compiacente. In questo modo, finivano per considerare l’integrazione con lo stesso disprezzo dei bianchi>>; le donne la detestano perché seduce i loro uomini e poi li molla come niente fosse. Sula diventa per tutte/i una intoccabile con i poteri malefici, capace di provocare incidenti e danneggiare gli altri alla stregua di una strega. Sula è bella e sembra ancora giovane, suscita invidia << Eccezion fatta per un dito dalla forma strana, e per quel segno maledetto, non dava segni di vulnerabilità>> ma neppure Nel , adeguata alle convenzioni, riesce a comprendere in cosa consista quella sua vulnerabilità <<Io conosco tutto quello che sta facendo ogni donna di colore di questo paese. Sta morendo. Proprio come me. Ma la differenza è che loro muoiono come ceppi d’albero. Io invece vado giù come una sequoia. Io ho vissuto davvero in questo mondo.[…]Io ho la mia mente. E quello che c’è dentro. Il che equivale a dire, io ho me.[…] Ma la mia solitudine è mia. La tua solitudine invece è di qualcun altro. Creata da qualcun altro e gestita da te. Non credi? Una solitudine di seconda mano>> dice Sula all’amica, prima di salutarla per l’ultima volta in un discorso straziante che prosegue in solitudine e anche in questo caso, la consapevolezza tardiva di Nel, potrà solo aggiungere dolore al dolore.
Ruggine: non c’è redenzione per le ultime
A Gina non sembra di aver mai avuto una giovinezza, vecchia e sola –come è sempre stata – al mondo esiste una sola persona che in qualche modo le voglia bene, un prete straniero e di scarsa vocazione, ed un unico essere per il quale dice di voler rimanere in vita, Ferro, un gatto randagio che ha adottato e per il quale le è stato affibbiato il nome di Ruggine. Gina ha una grande capacità di comprendere le persone <<sapeva riconoscere dai tratti del volto chi dice di volere il bene, ma poi non sa cosa siano la generosità e la compassione>>. La gente del paese di Montici finge di ignorarla, di occuparsi dei propri affari ma in realtà è sempre in agguato, alla ricerca di un qualche pretesto per sparlare e invidiare <<per potersi sentire migliore>>. Gina cammina ricurva, sotto il peso di un dolore folle che tenta di rimuovere ma che l’assale con fitte improvvise facendola contorcere e riportandole alla mente quel marito cui ha voluto bene, nonostante per stargli accanto si dovesse far forza con qualche bicchiere di troppo, ma soprattutto quel figlio che le ha schiacciato l’anima e la vita, che l’ha avvolta come in un bozzolo in modo morboso sinistro e folle fino, fino a che qualcuno dei servizi sociali non aveva bussato alla loro porta per portarlo in una struttura che se ne potesse occupare.
<<Fra Gina e il mondo c’era, a farle da scudo, l’uscio di casa>> Ma il male, che le era stato sempre intorno, riesce a varcare quella soglia nuovamente grazie alla gente in combutta, che senza alcuna pietà sapeva ma non ha mai alzato un dito per aiutarla, che anzi le addebita con malvagità inimmaginabili colpe, sottraendosi così a mancate responsabilità e punendola infine nel peggiore dei modi possibili. A Gina rimane quel poco martoriato di sé, mentre il male trionfa spudorato e neppure l’ambigua ragazza, che pur avvicinandosi a lei con biechi propositi prova un moto di simpatia, riesce a provare un senso di colpa che non sia solo vago.
Mi faccio sempre più persuasa che le storie di nonna Dora avessero un loro perché. Credo che, a suo modo, abbia voluto anticipare alla nipote piccola quanto che tre scrittrici hanno saputo magistralmente descrivere e raccontare nei loro libri: l’insanità della cosiddetta società civile come marchingegno terrificante teso ad annientare senza compassione alcuna, se non forse postuma, chi sceglie di non uniformarsi e viene così definitivamente bollato come non conforme. Il totale disinteresse e freddezza con cui essa disconosce, calpestandola, la vulnerabilità di altre. Sempre in A. Pigliaru si legge: “L’ipotesi può essere quella di contrattare una vulnerabilità immediata e senza precedenti, come si domanda Butler, ma quali sarebbero le strategie a lungo termine? «Le donne conoscono bene questo problema, lo conoscono praticamente da sempre, e nessun aspetto del trionfo coloniale ha reso meno netta la nostra esposizione a questo tipo di violenza. Possiamo pure apparire impermeabili, ripudiare la vulnerabilità. Il solo fatto di essere socialmente costituite in quanto donne non può impedirci di diventare a nostra volta violente. Poi c’è l’altra opzione, quella antica, secondo cui desiderare la morte o morire rappresentano il tentativo vano di limitare o schivare il colpo successivo». C’è forse un altro modo, ovvero auspicare un mondo in cui la vulnerabilità dei corpi trovi una mediazione tra protezione e annientamento. Allora la vulnerabilità può entrare nella dinamica di un incontro etico a patto di essere riconosciuta.”
<<Gina si chiese di che arma la natura l’avesse dotata. L’unica le parve la forza interiore che faceva persistere nella lotta il suo corpo piegato.>> A patto di essere riconosciuta.
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**L’esperienza di vulnerabilità. Prime ricognizioni, di Alessandra Pigliaru in Giornale Critico di Storia delle Idee – 12/13; 2014-2015
Fai clic per accedere a GCSI_12_Pigliaru.pdf
*Abbiamo sempre vissuto nel castello, Shirley Jackson, Adelphi ed. 2009, trad. Monica Pareschi (We have always lived in the castle, 1962)
Sula, Toni Morrison, Frassinelli ed. 1993, trad. Antonio Bortolotti (Sula, 1973)
Ruggine, Anna Luisa Pignatelli, Fazi Ed. 2016
Leggi anche:
La diffidenza della comunità e l’ostinazione di una donna di Giacomo Giossi
bellissimo, Grazie!!!
grazie a te, carissima Tatiana!
Interessante la tua analisi. Mi piace vedere come ogni lettore collega un libro a un altro, secondo un percorso logico molto soggettivo ma che, una volta articolato ed esplicato, diventa oggettivo. Quando leggo Ruggine, già in lista, torno a commentare con te 🙂
grazie poli 🙂 , ho accolto il suggerimento di una cara amica che mentre discutevamo di libri e altro mi ha detto “scrivi troppo poco però e ti perdi le cose”, per cui ho pensato ” inizio a non perdermi questo allora”….fammi sapere dopo ruggine!
Ruggine finito! Piaciuto molto a parte il finale, che mi sembra inutile e un poco affrettato. Gina è un personaggio bellissimo, arroccata nella sua casa, vinta dall’amore per il gatto che l’ha scelta, pronta a combattere fino alla fine dei suoi giorni per non farsi sfrattare. La cattiveria dei vicini è in parte reale, in parte mi pare frutto della mente della donna, che torna in continuazione su eventi passati.
grazie polimena!
Quando penso che la vita non abbia senso, sono gli strambi a ricordarmi che ne ha uno.
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