Il 25 novembre in un bicchiere d’acqua

 << Volevo dire a mio padre, E se la legge cambiasse? Potrebbe succedere presto, volevo dirgli. Forse no, ma è possibile. A quel punto si sarebbe ritrovato senza giro di affari. Almeno in parte. Pensava che sarebbe cambiato qualcosa per lui?

Che cosa potevo aspettarmi che mi rispondesse?

A proposito di affari, fatti i tuoi.

Oppure, Mi guadagnerei comunque da vivere.

No, avrei ribattuto io. Non mi riferivo ai soldi. Pensavo al rischio. Alla segretezza. Al potere.

Cambiare la legge, cambiare quel che  la gente fa, e quello che é?

Oppure avrebbe scovato un’altra forma di rischio, un altro nodo da inserire nella sua vita, un altro atto di misericordia trasgressivo e complesso?

Ma se può cambiare quella legge, anche altre cose possono cambiare. Sto pensando a te, ora, a come potrebbe succedere che tu non ti vergognassi più di sposare una donna incinta. Non sarebbe uno scandalo. Proiettati avanti di qualche anno, ne bastano pochi: potrebbe diventare una festa. La sposa incinta è condotta all’altare inghirlandata, magari nella cappella della facoltà di Teologia.

Ma se ciò accadesse, è probabile che ci sarebbe qualcos’altro di cui vergognarsi, di cui avere paura, altri errori in cui non incorrere.

E io? Dovrei comunque trovarmi un altro piedistallo? La soddisfazione morale, il senso di superiorità, la consapevolezza della ragione che riescono a trasformare in vanto le mie sconfitte?

Cambiare la gente. Diciamo tutti di avere questa speranza.

Cambiare le leggi, cambiare la gente. Eppure non vogliamo che tutto – non proprio tutto – sia dettato dall’esterno. Non vogliamo che ciò che siamo, tutto ciò che siamo possa essere organizzato così.

Ma perchè parlo in prima persona plurale? Noi, chi? >> da Prima che tutto cambi, in Il sogno di mia madre di Alice Munro, Einaudi 2001 trad. di Susanna Basso

 Questo piccolo brano tratto da un racconto, condotto magistralmente da Alice Munro, è sufficiente a mettermi in gioco e in discussione in tanti modi. La legge, cui fa riferimento la voce narrante di donna, è una legge sulla legalizzazione dell’aborto. Questo riferimento mi porta a pensare che in Italia una legge che regolamenta le interruzioni volontarie di gravidanza ce l’abbiamo dal 1978, grazie alle lotte strenue delle donne, eppure oggi il numero degli obiettori nelle strutture pubbliche è stratosferico, e mi pare chiaro che le Istituzioni non siano minimamente interessate ad affrontare seriamente questa situazione, se non  con gesti che paiono sostanziosi come una pacca sulla spalla. Cos’è? La consapevolezza della ragione ha avuto solamente la forza di trasformare in vanto la nostra (imminente) sconfitta, come scriveva Munro?

Leggendo – in questi giorni – approfondimenti politici, articoli pubblicati su quotidiani nazionali, ma anche blog di donne, non mi pare di vedere altro che una grandissima confusione, simbolica e materiale, sia in superficie che in profondità. 

E siccome credo che  bisogna andare alla radice dei problemi, che la violenza di genere ha una provenienza ben precisa (millenni di patriarcato), e che nel mio microcosmo anche io posso provare a fare qualcosa di simbolico/concreto,  quest’anno  ho deciso di stilare per il 25 novembre una  lista – passibile di aggiornamento/revisione – di piccole cose da tenere bene a mente e da fare. Inizierei così:

– Insistere maggiormente con Piero che l’educazione del bambino venga equamente ripartita, e non ricada in grande misura sulle mie spalle (come è per lo più, per inerzia di entrambi).

– Sbraitare come una donna delle caverne (sempre con Piero) quando siamo seduti a tavola  assieme alla mamma, perché a lui serve un’altra forchetta ma non muove un muscolo per prendersela (nonostante abbia gli arti funzionanti), aspetta che gliela prenda lei.

– Smetterla di tirare fuori la  frase di rito ogni qual volta scelgo di rinunciare ad un appuntamento che mi interessa, accompagnandola col gesto teatrale di alzare gli occhi al cielo (che peraltro chi sta al telefono non vede)  <<mannaggia, devo accompagnare il bambino in palestra/da un amico/a una festa/al cinema>> o la variante << mannaggia, non so a chi lasciare il bambino>>. Una soluzione si può trovare, e io posso provare a fare uno sforzo su me stessa (e qui, molte se la rideranno).

– Continuare a fare politica, con i piedi ben piantati a terra. Nella consapevolezza che  siamo più brave a far battaglie generiche che a vedere davvero le donne che più ci stanno vicine. E che non siamo molto brave ad essere “unite in genere”, se non in casi eccezionali nei quali pare che la minaccia sia imminente/incombente (e venga da fuori), rischiando   di far diventare una battaglia fondamentale, come il contrasto alla violenza di genere,femminicidiomarketing un altro   brand ( lo dico da un bel pò) utile solo a quanto diceva un signore francese nell’ottocento:

plus ça change, plus c’est la même chose, ovvero: più si cambiano più le cose restano come sono. Che non è solamente un motto di spirito, ma un concetto tramite cui viene definito con concisione il rapporto sconvolgente e paradossale tra persistenza e cambiamento, tenendo conto in maniera diretta dell’esperienza.

Ma qual è, in parte, la confusione di cui parlavo e che mi pare di intravedere, tramite l’esperienza? Ad esempio, che si assembla sui palchi chi sventola la bandiera del femminismo, e magari sono le stesse  che  parlano di baby prostitute e  additano minorenni  guardando appunto il  dito anzichè la luna; che associazioni di donne fanno celebrare messe  contro il femminicido nelle stesse chiese dove si nega alle donne  il diritto all’autodeterminazione (e dove viene chiamata assassina chi abortisce); che c’è chi fa un gran parlare di combattere gli stereotipi (in generale) e poi (in particolare) casca grevemente in ricostruzioni fantasiose e al limite del razzista sul modo di “essere” e di vivere delle donne meridionali o delle donne migranti; che Il web, i siti, i muri delle città sono pieni di locandine dove spiccano volti  tumefatti o corpi femminili (possibilmente nudi) rannicchiati a difendersi da un qualunque cazzotto pronto a colpirle, per pubblicizzare eventi a contrasto della violenza, e mi pare inverosimile che ancora associazioni/istituzioni/amministrazioni/ non abbiamo metabolizzato un concetto chiaro: ossia che la violenza contro le donne non si combatte con immagini che la esprimono o tramite la vittimizzazione di presunti soggetti,  deboli per natura. Che per molte ancora il punto cruciale e dirimente è esclusivamente a carico delle donne (che non si allontanano dalla violenza, che non denunciano la violenza, che partoriscono figli e crescono  mostri) non che  a prendere parola il 25 dovrebbero essere soprattutto gli uomini. Poi ci sono donne che organizzano flash-mob, sit-in, gridano alla sorellanza, cospargono i social di cuoricini e tanto ammmore e sono esattamente le stesse che  quando fai qualcosa di completamente disinteressato, forte, nuovo e cerchi di coinvolgerle,  ti aspettano invece al varco per <rimetterti a posto>, disconoscendoti e non riconoscendo alle altre originalità di pensiero e autorevolezza (si chiamano megere, non streghe). C’è poi chi dice che il 25 sciopererà, ma davvero  non sono riuscita a capire da chi o da cosa. Insomma, a volte – credo – riusciamo a perderci negli abissi di un bicchiere d’acqua, con tutte le scarpe (rosse) ai piedi. La speranza, è quella di non annegarci dentro. Ma … << Noi, chi?>> 

A ritroso nel tempo:

Era il 25 novembre 2012

Era il 25 novembre 2011

Era il 25 novembre 2010

per la serie: “ahò, siamo in una botte dè fero”

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4 commenti

  1. Bellissimo il racconto della Munroe, che a me ha impressionato più che altro per la descriziona del Padre (e lo metto in maiuscolo…): “E’ come se disponesse di un elenco di offese tanto passate quanto prevedibili nel futuro e volesse comunicarti che stai mettendo alla prova la sua pazienza ovviamente con ciò che sai di sbagliare ma anche con ciò che neppure sospetti possa irritarlo. Credo che un discreto numero di padri e di nonni ambiscano a ottenere quell’aspetto…”
    E’ vero, c’è una gran confusione fra le donne attorno al tema femminicidio. Ma è davvero così criticabile, questa confusione o ci stiamo guardando con lo sguardo spazientito e supponente del Padre?
    Abbiamo trovato la voce da troppo poco tempo per pretendere da noi stesse di essere tutte perfettamente intonate.
    Il femminismo è proprio questo, credo io: liberiamoci dell’angoscia di dover essere perfette per guadagnarci un posto in questo mondo. Abbiamo il diritto di esistere perché esistiamo, abbiamo il diritto di essere rispettate non perché diciamo o facciamo sempre la cosa più giusta, ma perché siamo esseri umani, e in quanto tali siamo fallibili e possiamo sbagliare. Secondo me dovremmo essere un tantino più indulgenti con le donne e con noi stesse, perché tutto questa ricerca del gesto perfetto, della frase perfetta, dell’azione perfetta, rischia di paralizzarci nell’angoscia… soprattutto perché solo sbagliando si impara. E ogni tanto dovremmo anche premiare l’entusiasmo e la buona volontà, senza spaccare il capello in 4.
    Questo lo dico perché mi è dispiaciuto leggere qualche giorno fa le perplessità sul termine “sciopero”. Insomma, l’idea è stata lanciata a giugno e in questi mesi chi l’ha lanciata c’ha lavorato molto per organizzare eventi e raccogliere adesioni. E’ un po’ crudele svegliarsi a pochi giorni dall’evento per criticare la scelta del termine: mi fa pensare al Padre della Munroe, seduto con le gambe distese e le mani appoggiate sulla pancia, che guarda con irritata disapprovazione una figlia della quale non si è mai veramente preso cura.

    “Sbraitare come una donna delle caverne (sempre con Piero) quando siamo seduti a tavola assieme alla mamma, perché a lui serve un’altra forchetta ma non muove un muscolo per prendersela (nonostante abbia gli arti funzionanti), aspetta che gliela prenda lei”: la mia preferita.
    Una sera stavo cucinando e mio figlio – aveva 7 anni circa – stava disegnando sul tavolo della cucina. Mi chiede: “mi prenderesti in camera…” Gli rispondo che ho le mani occupate, e lui replica “non fai niente tutto il giorno!” Così, con molta calma, smetto di cucinare e gli dico: “ora ti mostro una persona che non fa niente tutto il giorno, così impari a misurare le parole”, prendo un libro e mi stendo sul divano. Alle nove di sera realizza che non avrebbe mangiato. Così si mette il pigiama e viene da me: “Ti chiedo scusa, non succederà mai più”. Non gli ho risposto e ho continuato a leggere il mio libro e lui a capo chino è andato a dormire. Non è mai più successo.

  2. ciao cara, sono d’accordo con te, quasi su tutto. quando scrivo di solito lo faccio pensando a situazioni ed esperienze di vita ben specifiche, non scrivo mai “Per sentito dire”, allora ti dirò che quel “Noi” è da qualche anno che mi fa pensare. non siamo “NOI”, non lo siamo quasi, tranne che… e allora ad esempio potrei andare all’iniziativa di chi qualche anno fa nella mia città ha finanziato il movimento per la vita con i proventi di un concerto pagato con i soldi pubblici? potrei? certo che no. sostenere le donne è una cosa, sostenere a prescindere non l’ho mai fatto, e soprattutto: l’ipocrisia appartiene a qualcun altra. ps per ogni donna, una definizione di femminismo, un abbraccio

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